di Beniamino Natale Sono le otto di sera quando arriviamo alla periferia di Bamiyan dopo un massacrante viaggio in macchina da Kabul, ma nella valle è già notte...
di Beniamino Natale
Sono le otto di sera quando arriviamo alla periferia di Bamiyan dopo un massacrante viaggio in macchina da Kabul, ma nella valle è già notte fonda. I pochi negozi sono chiusi. I locali – che sono dell’etnia minoritaria degli hazara – ci guardano con sospetto e guardano con timore il Talib che ci accompagna: un ragazzone pashtu, cresciuto nei campi profughi del Pakistan, di nome Issah Khan.
Anche Issah è spaventato. Sa di essere uno straniero a Bamiyan, come sono stranieri gran parte dei Taliban della guarnigione locale. Nessun equivoco è possibile: come Kabul, piu di Kabul, Bamiyan è una città sotto occupazione militare. Come a Kabul non si riesce a capire se esiste qualche autorità che ha imposto un coprifuoco regolare, ma per le poche decine di migliaia di abitanti della città le cose sono chiare: in giro non c’è un’anima a parte i miliziani Taliban che ostentano i kalashnikov e si guardano nervosamente attorno sapendo che dietro ogni roccia, dietro ogni finestra può nascondersi un nemico.
In qualche modo esce fuori una cena – kebab e pane – e poi ci invitano a dormire in una stanzetta che si affaccia sulla strada principale, con una rudimentale porta di legno che si chiude a malapena. C’è molta tensione. Noi non capiamo bene dove siamo finiti. Loro non capiscono bene cosa siamo venuti a fare. Come tante altre tribù afghane, anche gli hazara hanno una tradizione guerriera – sono i discendenti dei soldati di Ghengis Khan – e noi siamo venuti con i loro nemici, i Taliban pashtu. Issah, mandato dal ministero degli esteri ad accompagnarci nella sua prima importante missione fuori dalla capitale, è confuso.
Gli chiediano di portarci dal comandante locale dei Taliban, che ci invita a dormire nella loro caserma. Sistemiamo i sacchi a pelo su dei tappeti in una stanzetta. È solo quando usciamo in cortile a fumarci una sigaretta che la vediamo. Un’enorme statua di Buddha ci sovrasta, scavata in parete rocciosa alta qualche decina di metri. C’è una fetta di luna e un raggio illumina quello che rimane del volto della statua. Il cielo di montagna – siamo a 2500 metri di altitudine – è di un blu profondo ma luminioso. Il cuore mi batte forte. Ce l’ abbiamo fatta: siamo a Bamiyan e siamo proprio sotto i giganteschi Buddha.
”…Qui la mente è potente, la neve alta e le temperature sono gelide anche d’estate, le vallate sono profonde e le cime pericolose” scrisse tredici secoli fa il pellegrino cinese Hsiun Tsang descrivendo la valle di Bamiyan. Come tanti altri, anche lui aveva intrapreso un viaggio lungo e pericoloso per venire a visitare la valle dei Buddha giganti. Nessun momumento testimonia meglio dei Buddha di Bamiyan la straordinaria storia dell’Afghanistan pre-islamico che, come ha ricordato l’ agenzia dell’Onu per la cultura, l’ Unesco, era ”situato a un crocevia della via della seta e che ha un’eredità culturale unica, segnata dalle molteplici influenze della Grecia, della Persia, dell’induismo, del buddhismo e dell’Islam”. I Buddha di Bamiyan furono costruiti tra il terzo e l’ ottavo secolo dopo Cristo dai monaci buddhisti venuti da tutta l’Asia. Furono scavati nella grande parete di roccia che sovrasta Bamiyan, uno dei primi contrafforti della catena dell’Hindu Kush che si trova qualche decina di chilometri più a nord.
I lineamenti dei volti – quelli che rimangono – sono orientali ma le tuniche che indossano – quel poco che ne rimane – sono simili a quelle usate dai greci antichi. I Buddha di Bamiyan sono l’ esempio più completo dell’arte ellenistico-orientale di Gandhara (dal nome dell’antica città che è stata identificata con la moderna Peshawar, in Pakistan), espressione dell’incontro dei missionari buddhisti inviati dall’imperatore indiano Ashoka con le culture della Persia e della Grecia.
Il cielo azzuro, i prati verdi macchiati di bianco dalla neve, l’enorme parete di roccia giallastra, i minareti blu di Bamiyan. Sarebbe abbastanza anche senza i Buddha silenziosi, maestosi, che sembrano sorridere benché i loro volti siano devastati dal tempo e dal vandalismo dei Taliban.
Ci alziamo all’alba e saliamo sul tetto della caserma – che più volte è passata dalla mani dei Taliban a quelle dei loro avversari, i miliziani hazara dello Hezb-i-Wahadat – per guardare e fotografare i Buddha. Il sole sta sorgendo alle nostre spalle e ogni dieci minuti le statue intagliate nella roccia – oltre alle due grandi ce ne sono decine più piccole – cambiano colore: giallo, ocra, rosa … Qualcuno ci ha raccontato che al tramonto sembra di stare in un’altro posto, tanto radicale è il cambiamento della luce e dei colori. Non lo sapremo mai.
Scopriamo che nella lettera con la quale ci ha autorizzati a recarci a Bamiyan, il ministro degli esteri Ahmed Wakil Muttawakil ha scritto che dobbiamo stare al massimo tre ore, che non dobbiamo andare in città, che non dobbiamo parlare con nessuno. Ci avviamo a piedi verso il secondo Buddha gigante, quello alto 53 metri. Non abbiamo ancora cominciato a fotografarlo che dalle grotte scavate nella parete rocciosa – una volta le celle dei monaci – sbucano una decina di giovanissimi Taliban, strillando e agitando i kalashnikov. Abbiamo la lettera ma loro dicono di non saper leggere. Ci accompagna il comandante della guarnigione dei Taliban ma loro dicono che hanno un altro comandante.
Guardano con un misto di ammirazione e disprezzo le nostre macchine fotografiche, le nostre videocamere digitali e ci agitano in faccia i loro mitragliatori. Riusciamo a ottenere dieci minuti di tempo, poi dovremo andare. Le tre ore sono scadute. La nostra carrozza ridiventa una zucca. Il comandante ci sbatte sulla jeep e ordina all’autista di partire. Lo facciamo fermare dopo un chilometro, su una collina, per un’ultimo sguardo e qualche ultima fotografia. Ora il sole si è alzato e i suoi raggi tagliano in due fette di diverso colore la parete rocciosa, e i Buddha. Allora non sapevamo che nessuno li rivedrà più. Mai più.