La giungla di Calais, un racconto di Razi Mohebi
Nel mese di agosto mi sono recato con mia moglie Soheila Mohebi e mio figlio in Francia. Lì avevamo intenzione di girare un documentario sulla “giungla di Calais” ormai quasi del tutto smantellata. Quei giorni mi hanno segnato profondamente e ho capito che il cinema non è sufficiente a raccontare ciò che ho visto. Ho deciso così di provare a spiegare Calais e la sua umanità negata attraverso questo racconto, conscio del fatto che nessuna lingua e nessun alfabeto potranno mai sopperire alla mancanza d’umanità di quel luogo. Non è possibile raccontare la giungla, ma la giungla racconta moltissimo di noi. Mentre scrivevo questo racconto sono venuto a sapere che durante le riprese del documentario il fratello di uno dei protagonisti è stato ucciso nella giungla assieme ad altre sette persone. Il ragazzo era stato accoltellato da alcuni trafficanti, per il semplice fatto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Episodi come questi a Calais erano all’ordine del giorno. Mi sono poi finto un rifugiato che voleva raggiungere la Gran Bretagna e ho parlato con un volontario-trafficante dell’associazione di volontariato inglese Auberge, il quale mi ha fornito informazioni per raggiungere la Gran Bretagna, come i costi e i trafficanti ai quali mi sarei dovuto rivolgere. I dialoghi contenuti in questo racconto sono avvenuti realmente, non sono frutto della mia fantasia.
Un uomo stava ritto in piedi davanti al cancello di Auberge, impietrito e attonito teneva il figlio per mano mentre le sue dita affusolate stringevano quella manina sempre più forte. Le frontiere del significato collassavano una dopo l’altra e il corpo della lingua andava in frantumi. Le parole avevano perso significato, principio e presente si mescolavano l’uno nell’altro, in una confusione senza fine. Ogni cosa possedeva molteplici principi che si moltiplicavano tra loro, per nessun presente esisteva una fine. In quel momento nella sua mente l’uomo vide l’apocalisse e ogni cosa si fece lo specchio di un’altra. Principio e presente allora combaciarono e nessun presente ebbe più una fine.
L’uomo ricordò la prima volta che davanti al cancello del macello di polli era rimasto impietrito, proprio come ora. Era una fabbrica gigantesca, all’interno della quale stava una lunga fila di uomini. Indossavano tutti un camice bianco sporco di macchie di sangue, alcune vivaci altre scolorite. Polli morti o moribondi pendevano da ganci di ferro che roteavano velocemente uno dopo all’altro. Ricordò allora il suono metallico che quei ganci producevano sbattendo tra di loro, il rumore dell’acqua pompata a terra e quello della voce degli uomini mescolata alle urla di dolore dei polli che stavano in quel momento spiumando. Davanti alla rapidità con la quale gli uomini svolgevano le loro azioni rimase allora attonito.
L’uomo ricordò che dopo la morte della sua oca, una gallina aveva deposto le uova assieme a quelle lasciate dall’oca defunta. Le uova si erano poi schiuse, portando alla luce sia pulcini di gallina che pulcini d’oca e la mamma chioccia curava con lo stesso amore tutti i pulcini, incurante delle differenze. L’uomo ricordò il giorno in cui il gatto di Habé Mahan tentò di mangiare un pulcino d’oca e di come la gallina prendendo per bene la rincorsa lo avesse attaccato così coraggiosamente che il gatto per la paura cadde dalla finestra del secondo piano, rompendosi tutte e quattro le zampe. La mamma aveva allora portato il gatto da Alì Barsch affinché gli curasse le fratture con del tuorlo d’uovo. Mentre le zampe del gatto guarivano, i pulcini d’oca e quelli di gallina crescevano sereni e colmi d’affetto, tanto che le oche finirono per comportarsi come galline e le galline come oche.
L’uomo capiva questa lingua meglio di quella degli uomini.
L’uomo ricordò che quando a casa c’erano gli ospiti di suo padre, per colazione sua madre cucinava sempre la frittata e diceva: “Dobbiamo trattarli bene, sono persone importanti”. Fu così che ogni volta che poteva, l’uomo comprava le uova e faceva una frittata, nella speranza di diventare anche lui un uomo importante.
L’uomo stava ritto in piedi davanti al cancello di Auberge, impietrito e attonito stringeva la piccola mano di suo figlio e sentiva il calore propagarsi nelle fredde vene. L’uomo fissava con lo sguardo lo spazio infinito e grigio dello stabilimento di Auberge.
Lunghe code di uomini con scarpe pesanti e gilet arancioni a strisce verdi fosforescenti oppure viceversa verdi a strisce arancioni fosforescenti, si mescolavano sotto la luce accecante delle lampadine sospese nell’ampia volta del soffitto; gli uomini erano intenti a tagliare scatoloni di diverse dimensioni, con coltelli e forbici molto appuntite li facevano a pezzi rapidamente – proprio come gli uomini dal camice sporco di sangue che vide quel giorno nel macello di polli, i quali in un batter d’occhio estraevano le interiora dei polli e poi pulivano via il sangue con la pompa dell’acqua. Anche gli uomini fosforescenti estraevano il contenuto delle scatole come fossero state nient’altro che frattaglie.
Più in là, fuori dal cancello, un gruppo di uomini con vestiti colorati e scarpe leggere dai colori e le forme variegate come la vita, aspettavano solidali e fiduciosi di diventare arancioni a strisce fosforescenti, oppure viceversa, fosforescenti a strisce arancioni.
L’uomo teneva lo sguardo fisso, solo le sue palpebre di tanto in tanto si muovevano, immobile come una statua osservava spostarsi al vento le dodici stelle sullo sfondo blu dell’Unione Europea.
Con un movimento dolce strinse la piccola mano del figlio tra le sue dita affusolate e il suo sguardo scivolò sulla bandiera della Gran Bretagna che svettava sopra il cancello di Auberge, poco più sotto quella dell’Unione Europea si arrotolava invece nel vento. In quel momento sentì che qualcuno lo stava chiamando. Per un attimo si riscosse dal suo torpore poi il suo sguardo tornò a posarsi sulle bandiere arrotolate dal vento.
La voce lo chiamò ancora ma questa volta con più forza.
– Compatriota, sei un nuovo arrivato? Arrivi dall’Italia vero? Quindi hai i documenti italiani, no?
– Certo che sì
– Tanti qui nella giungla hanno i documenti italiani ma vogliono ugualmente andare oltremare. Anche tu vuoi andare oltremare? Vieni, ti aiuto io.
L’uomo si diresse verso la parte nord della struttura di Auberge. Un grande camion pieno di scatole di carne di pollo, uova e banane era parcheggiato sull’asfalto. Scarpe pesanti e un’infinità di colori arancioni a strisce fosforescenti, o viceversa, fosforescenti a strisce arancioni si spostavano velocemente, tagliando, aprendo e impacchettando gli scatoloni. Un uomo tarchiato e abbronzato dai vestiti fosforescenti, senza alzare la testa o fermarsi per un attimo, continuava a insultare gli altri:
– Sbrigatevi, dovete essere più veloci. Non siete qui in vacanza, dovete imparare un lavoro.
L’uomo, tenendo la mano di suo figlio nella sua, si fermò.
– Io sono Zalmai Ahmaedzai. Ma tutti mi chiamano Zalmai. Sono di Katawas (n.a: Afghanistan). Avevo un albergo ad Angoradah, era un albergo a 6 stelle per quelli che volevano migrare all’estero.
Una fragorosa risate scaturì dalla gola di quell’uomo abbronzato e fosforescente.
– Conosci la legge di questi alberghi? Se sei un immigrato mangi o non mangi paghi uguale.
Rise di nuovo.
– È lì che ho imparato a lavorare con gli stranieri. Poi siamo andati a Sfrai Namak in Pakistan. Alla fine del 2000 ci hanno consigliato di andare in Grecia, lì gli affari funzionano bene. Dopo l’11 settembre abbiamo capito che la politica mondiale stava cambiando e che avremo fatto affari d’oro. Nel 2003 ci hanno portati qui nella giungla, ma forse tra qualche mese ci manderanno in Turchia, il perché lo capisci anche tu.
Una giovane ragazza in gilet arancione e scarpe pesanti stava in quel momento spostando uno scatolone di banane. Era angosciata, stressata e piena di dubbi sospesi. La ragazza chiese a Zalmai:
– Mi scusi, questi li devo mettere nei sacchi neri o nelle scatole blu?
Zalmai senza guardarla neppure in faccia le urlò:
– Stupida, non capisci che i sacchi neri vanno nella giungla? Se la roba non è ancora marcita mettila nelle scatole blu. Quando imparerai? Sono ormai due giorni che lavori qui.
Poi alzò la testa e lanciò un breve sguardo all’uomo che stringeva la mano di suo figlio e continuando a impacchettare le scatole di banane disse:
– Non mi hai però detto come vuoi arrivare oltremare
Non attese la risposta dell’uomo e l’uomo non disse nulla. Zalmai era solito fare domande a cui egli stesso dava una risposta, in pratica non faceva domande, dava solo risposte.
– Per andare ci sono diverse possibilità: assicurata o non assicurata, dentro il camion o sotto il camion, autista sa o autista non sa. Tutto dipende dalla tua situazione economica. Secondo me per te è meglio assicurata. Costa 10 000 dollari. Ce li hai? Sì, sono certo che ce li hai.
Questa volta l’uomo pose una domanda:
– Come posso capire che è assicurata? Chi mi assicura?
Zalmai rispose:
– Guarda, qui la maggior parte di loro sono inglesi. In realtà la responsabilità della giungla è nelle loro mani. I soldi che prendiamo da te vengono divisi tra tutti: inglesi, polizia, ristoratori, negozianti e trafficanti. La polizia però prende di più, perché loro rischiano di più. A noi rimane in tasca ben poco. Da quando hai dato i soldi a quando arrivi in Inghilterra passano solo due ore. La macchina parte da qui e tu scendi nella prima città inglese. Questa non ti sembra una buona assicurazione? Anche un negoziante o un ristoratore ti può assicurare.
L’uomo allora chiese:
– Però mi mancano 100 dollari, potresti fare qualcosa?
Zalmai rispose:
– No, no caro, devono essere esattamente 10 000. Tua moglie è con te?
Diede uno sguardo veloce al bambino, la sua mano tra le mani del padre.
Per un attimo si fermò.
Spostò qualche scatola d’uva e poi quasi sussurrando disse:
– Se vuoi fare un po’ di soldi il lavoro nella giungla c’è, ma è solo per le donne.
Una donna di mezza età con un gilet fosforescente a strisce arancioni e le scarpe pesanti sbucciò una banana e la offrì al bambino. Zalmai con un movimento veloce strappò la banana dalle mani della donna, buttandola il più lontano possibile, e disse:
– No! Dalle sacchi neri non devi dare nulla a questo bambino! Loro rimangono qui solo un giorno.
Poi voltò il viso verso l’uomo:
– Vi raccomando di non mangiare nulla qui nella giungla. Crea dipendenza. Se mangiate qualcosa dormirete in continuazione e se smetterete di mangiarlo diventerete nervosi e litigherete per nulla. Preparatevi che ora entriamo alla giungla.
L’uomo lo ringraziò ma gli disse che lo avrebbero raggiunto a piedi.
Zalmai fece un cenno con la testa ma aggiunse:
– State attenti che qui intorno è pericoloso. Tutte queste terre sono state comperate dalla mafia curda.
E con il dito indicò lo spazio intorno alla struttura di Auberge. Lo sguardo dell’uomo si fermò un attimo sulle stelle che stavano immobili sullo sfondo blu della bandiera degli Stati Uniti. Con la mano salutarono alcuni cuccioli di gatto richiusi in grandi gabbie di ferro e poi si diressero verso un camion colmo di sacchi neri.
L’uomo prese la mano di suo figlio e si incamminarono insieme verso la giungla. La giungla era una sorta di storia in miniatura dell’avventura dell’uomo contemporaneo. Nella giungla tutte le guerre del mondo si incrociavano, là niente era la continuità di qualcos’altro. La giungla non era neppure una giungla. Lì il corpo della lingua era distrutto una volta per sempre e il concetto di ordine del tempo era collassato su se stesso.
Tutto intorno la giungla era assediata da stivali neri pesanti, da stelle incollate allo sfondo blu scuro delle divise, da fucili pronti a sparare, da alte mura cinte di filo spinato elettrico e più in là da un insieme di colori arancioni e fosforescenti e da scarpe pesanti, impegnate a dar fuoco ai rifiuti della giungla.
L’uomo e suo figlio si avvicinarono al cancello e videro una giovane vestita di arancione a linee fosforescenti e scarpe pesanti. La ragazza andava verso il filo spinato. Tra le mani teneva un bicchiere di thé caldo, il cui fumo evaporava e veloce spariva nell’aria. Si avvicinò a un giovane rifugiato che l’aspettava dietro il filo spinato.
La ragazza disse:
– Quando hanno capito che so cosa accade qui hanno smesso di lavarmi i bicchieri. Dopodiché hanno iniziato a non lavare più nemmeno i miei piatti e infine le posate. Mi hanno detto -Qui devi imparare a lavorare come diciamo noi, non come vuoi tu. Questo è un posto per lavorare, non per capire e nemmeno per amare- Oggi ho visto che hanno persino rotto il bicchiere e le posate che usavo. Guarda là
E con la mano indicò un mucchietto di vetri e di posate piegate.
Poi aggiunse:
-Sai cosa significa questo? Vuol dire vattene.
La giovane rimase a lungo in silenzio fissando gli occhi del ragazzo oltre il filo spinato. La ragazza vide in quegli occhi trasparenti il riflesso di se stessa. La giovane vestita di arancione con le linee fosforescenti e le scarpe pesanti, si sciolse i capelli, tolse l’arancione e con esso le linee fosforescenti, tolse anche le scarpe pesanti e attraversò infine il cancello per stringere forte tra le sue braccia il ragazzo che amava, un rifugiato. Gli stivali neri, le stelle incollate sullo sfondo blu scuro e i fucili pronti a sparare, staccarono forse per sempre la ragazza dalle braccia del giovane rifugiato. La portarono all’Auberge e solo allora si allontanarono.
Un uomo fosforescente raccolse da terra il gilet e le scarpe lasciate dalla ragazza, scavalcò i cadaveri dei rifugiati accoltellati la notte prima durante un litigio tra i trafficanti e la polizia, e infine gettò i vestiti nel fuoco. Colori, scarpe, sacchi neri e carcasse di topi bruciavano tutti nello stesso fuoco. Il fumo e la cenere si alzavano nel cielo della giungla proprio come il tetto grigio dell’Auberge.
L’uomo, tenendo per mano suo figlio, attraversò tendoni che sembravano macchie di colori accesi lanciati su un terreno di sabbia e radici secche. Attraversò ombre di bandiere che apparivano più grandi delle tende stesse e giunse finalmente in cima a una collina al di sopra della quale si poteva scorgere non solo la giungla ma persino il mare nella sua vastità. La giungla si trovava su una spiaggia della Manica – tra Francia e Inghilterra – nella città di Calais. La giungla era un enorme corpo purulento e colorato puntellato di tende di diverse dimensioni. Le sue pustole erano come quelle che si possono trovare sulle carcasse dei topi. La giungla era malata e il suo corpo febbrile. Sono stati gli uomini a contagiarla. La giungla era un luogo che non fa parte del mondo, un luogo creato per cittadini senza mondo. Le notizie che portano questi uomini sono notizie di sventura, è per questo che sono odiati dagli uomini per bene, dagli uomini che fanno ancora parte del mondo.
La giungla portava su di sé il marchio del disastro.
Le forze mondiali hanno portato i cittadini senza mondo sulla soglia del Mondo e la giungla era l’incarnazione del crollo dell’ordine mondiale.
Un ragazzo seduto nella sua tenda versava dell’olio extravergine d’oliva in una pentola, sull’etichetta della tanica c’era scritto “consumo consentito solo fuori dal Pakistan”, mise nell’angolo della pentola uno stoppino fatto di radici secche arrotolate, aspettò che si imbevessero d’olio e poi lo accese.
L’uomo strinse la piccola mano morbida di suo figlio tra le sue dita lunghe e affusolate, il suo sguardo si fermò sul ragazzo che stava seduto accartocciato nella sua tenda, accanto a un fuoco fatto di radici secche e olio d’oliva. Con un coltello grande e affilato il ragazzo tagliava le parti ancora utilizzabili di una ciabatta di plastica. Accanto a lui c’era un foulard blu con delle stampe a fiori su cui stavano tutte le ciabatte rotte che era riuscito a raccogliere nella giungla. Ogni tanto posava il coltello sopra la fiamma e quando il ferro diventava incandescente, poggiava la lama sulla plastica per fonderne le parti e produrre ciabatte nuove di zecca.
Ad un certo punto la lama incandescente si fuse non più sulla plastica ma sulle dita del giovane, che pazzo di dolore lanciò il coltello in aria. Il coltello cadde in una pozzanghera che la pioggia della sera prima aveva lasciato fuori dalla sua tenda. Il ragazzo si soffiò sulle dita e scalciò rabbiosamente sulla sabbia.
L’acqua sfrigolò sulla lama incandescente producendo onde che si moltiplicarono su tutte le acque della terra. La sabbia si ribellò ai calci del ragazzo e si fuse in tutti i deserti del mondo, la fiamma sullo stoppino di radici si trasformò in incendio, il soffio del ragazzo diventò vento, il quale a sua volta si fece folata e fu allora che la terra si ammalò e in preda ai deliri dalla febbre iniziò a tremare come il corpo della giungla. La terra venne infettata dal corpo della giungla, proprio come la giungla venne infettata dagli uomini.
Le onde dell’acqua, il vento, la terra e il fuoco si fecero ciclone che dai quattro angoli della terra si mosse sibilando verso la giungla situata a Calais, nel porto della Manica, tra l’Inghilterra e la Francia. La giungla dai muri alti cinti da filo spinato elettrico, dagli stivali neri e le scarpe pesanti. I cicloni di vento, acqua, terra e fuoco arrivarono fino alla giungla e girarono intorno al muro di filo spinato facendo roteare gli stivali neri, le stelle incollate sullo sfondo blu scuro delle divise, i fucili pronti a sparare, i vestiti arancioni a linee fosforescenti o viceversa, fosforescenti a strisce arancioni, le scarpe pesanti e sibilando fece volare tutto quanto verso l’infinità del cielo. Le bandiere si staccarono dall’asta e si librarono nell’aria per finire strappate sul filo spinato. Le stelle si liberarono dalle loro bandiere e volarono verso il cielo. Forse il ciclone arrivò proprio per liberare le stelle affinché nessun uomo e nessun oggetto potesse mai più possederle. Il ciclone portò con sé la storia dell’avventura dell’uomo nella giungla. Un muro fatto di terra, vento, fuoco, acqua, in un attimo rese visibile la storia dell’avventura dell’uomo. Con il ciclone avvenne l’apocalisse.
L’uomo strinse più forte la mano morbida e calda di suo figlio, con l’altra mano il bambino giocava con il riflesso delle stelle racchiuso nell’acqua raccolta dal ciclone – le stelle andarono verso il cielo. L’uomo avvertì il calore di suo figlio, rimase in silenzio, e nel piacere di quel silenzio sentì la voce dell’oca che dall’infinità del mare lo chiamava verso di sé. La sua voce era un’unione armoniosa tra quella delle galline e quella delle oche. L’uomo capiva questa lingua meglio della lingua degli uomini.