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di @NikValentini Il 12 aprile il decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione è stato approvato alla Camera diventando così legge dello Stato. Secondo il parere di molti giuristi la legge violerebbe non...

di @NikValentini

Il 12 aprile il decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione è stato approvato alla Camera diventando così legge dello Stato. Secondo il parere di molti giuristi la legge violerebbe non solo la Costituzione italiana ma anche la Convenzione europea sui diritti dell’uomo.

I punti più controversi riguardano l’abolizione di un grado di giudizio per il ricorso dei richiedenti asilo, l’abolizione dell’udienza, l’introduzione di centri di permanenza per il rimpatrio e il lavoro gratuito per i migranti.

Gli aspetti giuridici di tale legge sono stati ampiamente discussi in questi giorni in varie sedi e i giuristi democratici hanno già annunciato battaglia. In particolare in un comunicato ufficiale i giuristi hanno affermato che “chi davvero ha a cuore l’uguaglianza davanti alla legge e intende scongiurare l’instaurazione di un “diritto diseguale” per poveri, emarginati e stranieri non può non avvertire la portata enormemente ed ingiustamente discriminatoria di questi provvedimenti avverso i quali, se adottati, ci impegneremo a condurre tutte le azioni previste dall’ordinamento interno e internazionale”.

L’ultimo dei punti citati, ovvero la possibilità di lavoro gratuito per i migranti, non rappresenta una novità nel panorama italiano, ma diretta conseguenza di una pratica già in uso da alcuni anni in molti comuni italiani grazie ad una circolare risalente al 2014 che il ministro Alfano avrebbe voluto rendere obbligatoria.

La trasformazione di questa prassi in legge ha avuto come diretta conseguenza quella di rendere il lavoro gratuito uno dei prerequisiti all’accettazione della domanda d’asilo. Infatti, nonostante la prestazione lavorativa gratuita rappresenti sulla carta una mera possibilità, l’equazione lavoro – domanda d’asilo, evidenzia appieno il carattere ricattatorio di tale disposizione. Con la legge Minniti-Orlando, infatti, il richiedente diventa “sedicente” e la prestazione lavorativa costituisce un requisito di privilegio per ottenere la possibilità di essere riconosciuti come “reali richiedenti”.

Considerando però che il numero di richieste d’asilo accettate dall’Italia in questi ultimi anni ha subito una drastica diminuzione e che gli accordi che l’Unione Europea ha fatto con determinati Stati hanno di fatto classificato paesi come l’Afghanistansicuri”, è chiaro come nella maggior parte dei casi la concessione del diritto d’asilo dipenda più dal paese di provenienza che dalla storia personale o dal grado di “integrazione” del richiedente.

La nuova legge Minniti-Orlando, potrebbe perciò essere definita legge “clean and go”, pulisci e tornatene nel tuo paese. Essa rappresenta l’esito di un lungo percorso di smantellamento del diritto d’asilo a livello europeo, nonché un nuovo e duro colpo allo Stato di diritto. Esito che in Italia, come affermato dal giurista internazionale Fabio Marcelli, deve le sue conseguenze ad un certo atteggiamento dei dirigenti del Partito Democratico, i quali sono guidati dal “convincimento strategico, ridicolo e fallimentare, che facendo proprie le istanze della peggiore destra ne impediranno l’affermazione”.

La maggior parte dei partiti adottano strategie politiche sulla base di input che provengono dal basso e in ciò non vi è nulla di strano, eppure per comprendere come si sia arrivati a questo punto, occorre analizzare come è stato trattato fino ad oggi il tema dell’immigrazione e quali alternative sono state proposte per far fronte ai sentimenti di paura e rabbia di cui si nutrono le destre europee.

La risposta è sicuramente articolata e dev’essere considerata alla luce di più fattori, eppure tra di essi ce n’è uno che raramente viene preso in considerazione: il paternalismo insito nell’accoglienza italiana. Il paternalismo inteso come “atteggiamento benevolo nei confronti di una persona che si reputa inferiore”, rappresenta per Kant la peggior forma di dispotismo e a giudicare dagli esiti infelici delle disposizioni in materia di immigrazione e diritto d’asilo sembra proprio che il filosofo tedesco avesse ragione.

Se è pur vero che il diritto d’asilo ha ricevuto il colpo di grazia a causa della proliferazione di sentimenti di intolleranza e della mancanza di una legge organica in materia d’asilo, è anche vero tale diritto ha iniziato a vacillare proprio a causa di quelle istituzioni e partiti che per primi si sono dichiarati favorevoli alle pratiche dell’accoglienza e dell’inclusione. Ciò è avvenuto in quanto tali pratiche non sono state messe in atto nei confronti di esseri umani giudicati come pari, ma nei confronti di persone considerate unicamente nella loro accezione meccanico-biologica. Si è quindi provveduto alla soddisfazione dei loro bisogni primari ma si sono al contempo ignorate tutte quelle esigenze non conformi alla visione dell’uomo-macchina.

Il singolo viene degradato a rango di massa e la sua identità così annichilita diviene quella di profugo tra milioni di altri profughi senza volto e senza storia. Il paternalismo ha infatti la caratteristica di ridurre l’individuo al suo status, sia esso di genere o come in questo caso giuridico, nutrendosi di una presunta superiorità che ha lo scopo di infantilizzare il soggetto e di privarlo della sua autonomia, ponendolo così in uno stato di perpetua esigenza.

In generale possiamo considerare due tipi di paternalismo, entranbi inscindibili l’uno dall’altro. Il primo tipo è istituzionale e poggia in gran parte su considerazioni di natura politica, sull’esigenza avvertita dalle diverse istituzioni politiche italiane, e più in generale europee, di rispondere ai timori dell’opinione pubblica e quindi al loro elettorato. Il secondo tipo di paternalismo invece è di tipo sociale e deriva in gran parte da una visione di stampo colonialista del mondo e dell’”altro”. Questa visione è diretta conseguenza di un eurocentrismo, che dai tempi del colonialismo ad oggi, permea ancora la nostra società. La presunzione di superiorità morale, economica e storica che abbiamo nei confronti di popoli che provengono da molte aree del mondo è spesso inconscia ma lungi dall’essere superata.

Il grande malinteso

Da alcuni anni a questa parte, sui mezzi di informazione e nelle varie sedi istituzionali si è spesso affrontato il tema dell’inefficienza dell’accoglienza italiana. Si è parlato ad esempio del problema della gestione dei flussi migratori, delle procedure di identificazione, della gestione dei rimpatri, si è parlato insomma di un tipo di inefficienza che mina la credibilità e il funzionamento delle istituzioni. La vera inefficienza però è stata nei confronti di persone alle quali il diritto internazionale ed europeo assicura una protezione dignitosa e che sono invece spesso oggetto di sfruttamento economico (da parte di cooperative senza scrupoli o di caporali che permettono loro di lavorare in nero, quando la legge lo vieta) e talvolta anche di vessazioni psicologiche da parte delle forze di polizia o degli operatori delle strutture a loro destinate.

All’origine di questo tipo di inefficienza sta un grande malinteso: l’accoglienza infatti non risulta concepita come diretta emanazione di precisi obblighi giuridici derivanti dalla nostra stessa Costituzione, dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, bensì da una concessione benevola che le istituzioni scelgono di elargire a loro discrezione e piacimento. Da un punto di vista sociale, invece molti cittadini percepiscono l’accoglienza come un’ingiustizia, un dono che le istituzioni italiane fanno a migranti e richiedenti asilo a discapito degli italiani “veri” (uno ius sanguinis, quindi, concepito come sociale prima ancora che giuridico). Quando l’accoglienza viene percepita in tal senso, il dono risulta tanto più ingiusto in quanto non può essere ripagato. La reciprocità non è garantita, ciò che viene offerto non torna indietro.

La solidarietà e l’accoglienza però non sono un dono né tanto meno una concessione, ma diritti inscindibili dalla nostra identità europea, nonché frutto di terribili guerre fratricide che hanno devastato il nostro continente. Anche per questo motivo nell’agenda politica dei partiti dell’estrema destra europea, uno dei punti principali risulta essere l’annientamento pezzo per pezzo dell’Unione Europea.

Il dono che mortifica

Ogni qual volta un individuo tenta di riaffermare la propria soggettività e autonomia decisionale, le istituzioni e con esse i cittadini, rispondono con indignazione e con provvedimenti così severi da assumere le sembianze di vere e proprie ritorsioni. Questo è ad esempio ciò che è avvenuto a Trento il 31 maggio 2016, quando una ventina di richiedenti asilo hanno occupato Via Brennero per protestare contro la mancanza di assistenza medica, i perpetui tirocini gratuiti e il divieto di lavorare (divieto che viene attuato fino a quando il richiedente non ottiene la risposta della Commissione territoriale). La conseguenza di quest’atto di ribellione è stata l’esclusione dai programmi di accoglienza delle persone coinvolte nella protesta.

Ovviamente il blocco di una strada costituisce un illecito amministrativo, ma occorre domandarsi se ciò si sarebbe potuto evitare attraverso una maggiore comunicazione e una politica di accoglienza rispettosa della soggettività del singolo.

Perché se è vero che i tirocini gratuiti in Italia sono ormai una costante, è vero anche che le persone maggiormente soggette a sfruttamento sono quelle più facilmente ricattabili a causa della loro condizione giuridica, economica e sociale.

Puntualmente poi, quando simili eventi accadono, le istanze presentate dai dimostranti vengono stravolte dalla maggior parte dei media: la richiesta di cure mediche diventa richiesta di ricariche telefoniche, la frustrazione per una situazione instabile si trasforma in protesta per la mancanza di internet nella struttura di accoglienza. Commentando l’evento il Presidente della Provincia di Trento Ugo Rossi ha detto: “Non tolleriamo che ci siano episodi di questo tipo nel momento in cui un territorio si fa carico di accogliere queste persone”. Tale affermazione fa emergere anche una volta, il paternalismo di colui il quale si crede benefattore e non mero esecutore di diritto.

L’indignazione per la protesta non è provenuta solo da esponenti della Lega Nord, ma anche da persone le quali si dichiarano favorevoli alle politiche di integrazione e accoglienza. Ciò accade perché il paternalismo in quanto tale pretende riconoscenza e la sua presunta superiorità legittimazione.

Situazioni di questo tipo accadono puntualmente anche quando un qualsiasi rifugiato o migrante, avendo negli anni elevato il proprio status sociale e/o economico, si vede perennemente costretto a ringraziare coloro i quali (ovviamente italiani) lo hanno supportato nelle fasi iniziali della sua nuova vita in Italia, pena accese critiche rivolte alla sua ingratitudine. In questo modo alla persona verrà sempre ricordato di non essere egli stesso artefice del proprio successo, ma mero risultato della bontà altrui.

Possiamo osservare diversi esempi che rivelano un paternalismo intrinseco di questo genere. Un rifugiato che abbia scritto un libro di successo assieme ad un italiano, dovrà rendere omaggio al suo benefattore ogni qual volta gliene sarà data occasione. Un migrante che sia riuscito a terminare l’università grazie ad un iniziale supporto economico di un amico o conoscente italiano, dovrà sempre ricordare a chi deve realmente il suo conseguimento accademico. Tali pretese non provengono quasi mai da chi realmente ha fornito l’iniziale supporto, ma da chi assiste nella vita di tutti i giorni, sui social network o sulle pagine di un giornale, all’ascesa del soggetto in questione.

Ciò accade perché la riconoscenza espressa al singolo è implicita riconoscenza dell’intera nazione, gli “Italiani” hanno accolto lo straniero e grazie alla loro superiorità lo hanno innalzato ai vertici della loro società. Innalzare per degradare quindi.

Una delle testimonianze più toccanti e incisive su questo tema è sicuramente quella della scrittrice irano-americana Dina Nayeri, la quale in un articolo pubblicato sul Guardian dal titolo “Il rifugiato ingrato: non abbiamo nessun debito da ripagare”, ripercorre la sua storia di rifugiata negli Stati Uniti e analizza l’impatto che lo status di migrante ha avuto non solo sulla sua vita ma su quella di tutti i migranti, in particolare su quella dei rifugiati. Le parole di questa scrittrice sono forse le migliori per comprendere come non si possa pretendere da un altro essere umano di esserci grati per il solo fatto di occupare un pezzo di mondo nel quale ci siamo anche noi.

Voglio insegnare a mia figlia che non deve scusarsi per il posto che occupa nel mondo e che un’espressione colma di gratitudine non è quella che deve assumere di questi tempi. Senza queste persone (migranti) il mondo sarebbe un po’ più sbiadito, tanto più se sono giunte come rifugiati. Perché la vita di una persona non è mai un cattivo investimento e non ci sono creditori alla porta, né debiti da ripagare.

Articolo originariamente apparso su Melting Pot Europa

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