Recensione del film “Sembra mio figlio” di Costanza Quatriglio

di Roberto Masiero Per scelta deliberata ho avvertito l’esigenza di affrontare il film Sembra mio figlio, di Costanza Quatriglio, senza subire prima il condizionamento delle numerose recensioni e...

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di Roberto Masiero

Per scelta deliberata ho avvertito l’esigenza di affrontare il film Sembra mio figlio, di Costanza Quatriglio, senza subire prima il condizionamento delle numerose recensioni e delle interviste rilasciate in questo periodo di lancio. L’impressione a caldo che mi è rimasta attaccata al cuore, prima ancora che nel cervello, è quella di un’opera in cui la purezza è chiave per la sua intima comprensione. La vicenda è essenziale: Ismail (Basir Ahang) ed Hassan (Dawood Yousefi), due fratelli di etnia hazara, vivono da molti anni come rifugiati a Trieste. Ismail aveva soltanto nove anni quando la loro stessa madre – in un atto d’amore estremo – li aveva incoraggiati ad allontanarsi per sempre dall’Afghanistan. Nel tentativo disperato di salvare loro la vita, preferisce affidarli al destino incerto quando il regime dei Talebani minaccia furiosamente la sopravvivenza stessa di tutto il popolo hazara. Si sta perpetuando un ennesimo genocidio, iniziato a fine ottocento e sospeso soltanto per brevi parentesi nella Storia. Agli hazara i loro persecutori addossano soprattutto la colpa insensata di essere mussulmani sciiti in un paese profondamente sunnita che li equipara stoltamente ai cosiddetti infedeli. Gli occhi a mandorla e le fattezze mongole valgono come autodenunce di una diversità intollerabile. Per gli intrecci casuali della sorte, Ismail – ormai giovane uomo ben inserito in Italia – viene a sapere che la madre, probabilmente, è ancora viva. Si prodiga in ogni modo a cercarla, almeno attraverso il telefono, aiutandosi con degli ambigui contatti. Dopo diversi tentativi a vuoto, finalmente può ascoltare la sua voce trepidante e quasi sconfitta. La situazione è sconcertante. Oramai lei è una donna praticamente sconosciuta, costretta a risposarsi in circostanze misteriose ma dall’esito verosimilmente infelice; né la madre, né i figli possono immaginare il cambiamento avvenuto nelle loro vite, tanto meno quello delle reciproche fattezze fisiche: troppo tempo è trascorso. I loro dialoghi sono scarnificati, minimali, eppure si coglie interamente la preziosità, il pathos di un legame incredibilmente ristabilito.

I fratelli, ognuno per suo conto, decidono di affrontare il rischio di recarsi in Pakistan – dove adesso sembra trovarsi la madre – per riabbracciarla, forse anche per salvarla da una condizione di cupa sottomissione. In questa sede non è possibile svelare ciò che accadrà. Intendo invece sottolineare come questo sia un film dove gli sguardi, i più piccoli sommovimenti dei muscoli facciali, il linguaggio essenziale degli occhi e in particolare di quelli del protagonista Ismail – figura imponente e carica di una dignità sorprendente – colpiscono come mazzate, a volte inteneriscono. Il film è duro, controllato, antiretorico, eppure lascia trasparire alcune scene di una dolcezza infinita. Sono quelle dove emerge la pietà di Ismail per il fratello maggiore Hassan, dal doloroso vissuto che ne ha minato la salute;sono quelle dove si accenna, quasi con pudica riservatezza, al nascere di un sentimento che unisce Ismail alla delicatissima Nina, interpretata con ingenua freschezza da Tihana Lazovic. La regista ha saputo evitare le sirene del mercato che chiamavano a prosaiche, esplicite scene d’amore. In questo sta la profonda originalità, non certo il limite. Avvalendosi di un taglio documentaristico a mio avviso doveroso, ha reso il rapporto tra Ismail e Nina del tutto credibile, a suo modo struggente e incontaminato. Ognuno dei due sa quando, pur soffrendo per un distacco forzoso, deve fermare persino le pretese del proprio sentimento squisitamente bello, per non pregiudicare una missione vitale: il ricongiungimento alle radici merita -sopra ogni altra cosa – rispetto. Tutto quanto riguarda i sentimenti più profondi, come appunto l’amore in tutte le sue declinazioni, ma anche lo strazio, l’esecrazione ed il dolore vengono  interiorizzati nelle maschere dei volti, nei gesti misurati, nei simboli che parlano più di qualsiasi grido, di qualsiasi lamento. Il cellulare, strumento tecnologico accusato di essere un genere di lusso, ma solo quando ad usarlo sono dei migranti, diviene – ossessivamente – l’unico ponte che può collegare vite altrimenti irrimediabilmente separate.

L’ambientazione si sposta nel Pakistan per offrire esiti cinematografici sbalorditivi. Come quando le riprese dalla fotografia intensa inquadrano le scene di un funerale, dopo l’eccidio. Si ode un lamento corale, un canto funebre scuote come il frusciare incalzante del vento, evoca la ribellione della stessa natura per tanta crudeltà inferta. Delle candele accese formano la parola PEACE nel rito notturno, carico di tensione, per il prossimo temerario ritorno degli esuli: dal Pakistan poco accogliente si affidano – speranzosi agnelli sacrificali – ai trafficanti che dovrebbero traghettarli di nuovo in Afghanistan. Se così sta scritto nel libro divino, tanto vale morire nella propria terra. E dopo, altri residui di cera  mostrano la stessa parola PEACE, la cui sagoma è definitivamente corrotta, come pronostico di un tragico epilogo assegnato. Questa storia così toccante, mentre ci guida tra le vicende di una singola famiglia disgregata, innalza la prospettiva a chiedere conto sul senso della vita, della violenza, dell’appartenenza e riguarda l’universalità umana. L’inquadratura insistita, che muove dall’espressione accorata di Ismail e indugia sui volti delle donne, è una situazione dallo spessore cinematografico rarissimo, splendida nella rivelazione che asseconda: ogni donna si manifesta come una possibile madre, perché ognuna svela la consistenza dell’amore viscerale, anche attraverso le lacrime sfuggite – quasi controvoglia – alla compostezza del proprio indicibile dramma: una parentela affettiva che non conosce sangue né pretestuosa catalogazione di razza.Questo film convince anche per i ruoli affidati alla gente comune, con pochi attori professionisti, e conferisce a Sembra mio figlio una credibilità di fondo innocente ed autentica. Non è proprio il caso di accennare a tecnicismi che potrebbero ritenersi anche dei difetti. In questo film verità prevale assolutamente la qualità del messaggio che incanta, senza essere smaccatamente ideologico. Autentico si manifesta il contrasto insanabile tra Ismail, orientale nei modi, ma occidentale e insofferente verso la propria tradizione, quando essa tende a travalicare decisioni che competono esclusivamente ad ogni singolo individuo libero.

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