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Viaggio a Bamyan dove sorgevano le due enormi statue abbattute dai Taliban lo scorso mese di marzo. Tra grotte e camminamenti abitano i poverissimi hazara eredi di Gengis...

Viaggio a Bamyan dove sorgevano le due enormi statue abbattute dai Taliban lo scorso mese di marzo. Tra grotte e camminamenti abitano i poverissimi hazara eredi di Gengis Khan, decimati dal freddo e dalla fame.

Di ATTILIO BOLZONI

BAMYAN – La loro ombra è ancora lì che si allunga dentro la montagna. Al tramonto appaiono da lontano come in un miraggio, maestosi, scolpiti tra le rocce che l’ultima luce fa diventare prima di un rosa pallido e poi di un rosso fuoco. Sono ancora lì i due Buddha che non ci sono più. È come se non li avessero mai abbattuti, è come se dopo la fuga dei Taliban loro fossero tornati a dominare la magnifica valle di Bamyan incastrata tra le vette aguzze e imbiancate dell’Afghanistan. Sono quasi invisibili eppure sembrano più imponenti di prima, sono cumuli di pietre morte eppure sembrano monumenti vivi.


Siamo arrivati a Bamyan con il primo sole del mattino che stava sciogliendo la brina dei campi, terre grigie bruciate dai venti gelidi che soffiano in inverno dall’Hindukush. Visti dal cielo mentre il vecchio e malconcio elicottero russo scendeva sollevando nuvole di polvere, somigliavano a giganteschi sarcofaghi vuoti. Visti da vicino erano ferite fresche e profonde, la parete arenaria sfregiata come le viscere di una miniera, svuotata, saccheggiata, prosciugata. Alcune pietre piccole erano in bilico sul precipizio, altre pietre grosse quanto un camion e forse più erano infagottate dentro teloni di plastica con una scritta nera: “Protected by Unesco”. Pietre morte. Pietre infilate in un sacco come si fa con i cadaveri. Ma la loro ombra si vedeva anche da lì, era ferma, era immobile anche dai piedi della montagna.

Dentro la prima ferita c’erano disegnate sulla roccia le tracce del Buddha più grande, quello alto quasi cinquanta metri. Si intuivano ancora le curve della sue spalle, si indovinava il profilo della sua testa. A quasi mezzo chilometro c’erano poi le impronte più nitide e più marcate dell’altro Buddha che sembrava sorridere.

In questa valle dove per dieci secoli sono passate le carovane di cammelli lungo quella Via della Seta che collegava l’Occidente con l’Asia centrale, la Cina e l’India, sopravvivono oggi novantamila uomini e donne e bambini. Sono tutti hazara. La leggenda narra che gli hazara siano i discendenti dei guerrieri mongoli di Gengis Khan, fino a qualche stagione fa coltivavano grano e patate, adesso muoiono di fame e di malattie. Quasi cinquecento di loro si sono accampati nelle caverne dove un tempo c’erano le celle di migliaia di monaci buddisti, da quando i Taliban se ne sono andati le grotte sono diventate le loro case.
Sono buchi nella roccia, riparati da un cartone fradicio o qualche volta da tende rosse o verdi o gialle. Sono buchi larghi un paio di metri e lunghi un paio di metri. Gli uomini si devono piegare in due per entrare nelle grotte.

Dentro non c’è nulla, solo vecchi stracci che sono i giacigli degli hazara. Si accendono i fuochi anche la mattina quando il sole è alto qui a quota 2500 dove non cresce un filo d’erba fino in primavera. Non ci sono capre né montoni, non ci sono galline, quassù resiste solo un piccolo asinello bianco inseguito dai bimbi hazara lungo il sentiero che porta al ruscello dove le donne scendono a lavare i panni.

Nel marzo scorso, il popolo delle caverne ha visto abbattere i Buddha dall’altra parte della valle dove ci sono le prime nevi del Kowh Baba, una catena di colline che sembrano dolci di marzapane. Racconta uno dei capi tribù degli hazara: “Qualche anno fa avevano hanno bombardato per otto volte la cima della montagna e lassù si sono aperte grandi crepe, poi nel marzo scorso i Taliban hanno cominciato a puntare l’artiglieria pesante sulle statue dei Buddha e li hanno distrutti”. Gli hazara sono tornati quando gli uomini del mullah Omar e i loro amici arabi e pachistani e ceceni una notte se ne sono andati via all’improvviso. E hanno subito rioccupato le loro grotte, le loro case. Ne sono però morti a decine di hazara. Di freddo e di fame. Un paio di settimane fa la Croce rossa ha portato qui un camion colmo di viveri. Il popolo delle caverne aspetta il prossimo carico che verrà a gennaio o a febbraio e intanto spera che non nevichi come l’anno scorso o come due anni fa.

Tra i resti di un Buddha e i resti dell’altro Buddha ci sono centinaia di scale buie e centinaia di camminamenti che attraversano la montagna. Era il regno dei monaci che arrivarono 1500 e forse anche 1700 anni fa nella valle di Bamyan nessuno sa ancora esattamente quando una terra che diventò così un regno buddista, la capitale buddista dell’Asia centrale e dell’India anche dopo le conquiste islamiche. A perlustrare quel labirinto ci sono andati ieri due italiani, il sottosegretario ai Beni Culturali Vittorio Sgarbi e l’archeologo dell’Orientale di Napoli Gianni Verardi.

Si sono arrampicati sui sentieri che conducono alle antiche celle dei monaci, sono entrati nelle caverne, hanno superato ripide scale fino alla cima della montagna. Scoprendo soffitti affrescati e pareti stuccate, scoprendo un mondo sotterraneo che giorno dopo giorno si sta sbriciolando. “C’è bisogno di un restauro immediato di tutto il santuario buddista per farlo diventare un grande parco”, spiega l’archeologo Verardi che a Bamyan era già venuto due volte negli Anni Settanta. Vittorio Sgarbi era partito invece dall’Italia con l’idea di voler far “rifare” i due Buddha disintegrati dalle bombe talebane. Si è ricreduto dopo il sopralluogo, il sottosegretario: “Sarebbe sbagliato rimetterli in piedi completamente, forse si potrebbe pensare di ricostruirli in parte ma non è certo questo il problema: i Taliban distruggendo i due Buddha li hanno fatti rinascere, Bamyan è diventato così un luogo evocativo, ha ritrovato una grande dimensione religiosa”. E aggiunge Sgarbi dopo l’ultima arrampicata sulla montagna e dopo l’ultima esplorazione nelle caverne: “Meno li vedi e più li senti questi due Buddha di Bamyan”.

È proprio come se nella valle si aggirassero i fantasmi delle due statue. Il grande silenzio che avvolge l’altopiano, le campagne incolte, le carcasse di jeep e di camion militari, le ruote dentate di vecchi trattori russi che da chissà quando affondano nel fango, mitragliatrici abbandonate sui tetti delle case fatte con i mattoni crudi e la paglia, postazioni di guerriglieri nascoste da questa parte e dell’altra parte del fiume. Il silenzio diventa ancora più profondo quando ci si avvicina ai grandi buchi nella roccia, una strada di campagna, un sentiero, una collinetta di sassi e poi la prima terra rossastra e color ocra dei due Buddha, la terra che è fine come la farina, pezzi dei due colossi disintegrati e sparsi nel raggio di cinquanta e passa metri mischiati a schegge di granate. Ancora più su le pietre un po’ più grandi. E in fondo quelle enormi, quelle incappucciate nei teloni dell’Unesco.

C’è stampata sui teloni anche la data di quando sono state insaccate: il 29 dicembre 2001. Vicino a quel che rimane del primo Buddha resiste ancora una scritta in vernice nera, un verso del Corano: “Quando il giusto è venuto, l’errore se n’è andato”. È stato un Taliban a imbrattare la parete, a lasciare anche quest’altro segno del loro passaggio nella valle di Bamyan.
Gli hazara scendono dalle loro grotte al tramonto e vanno verso il paese che è solo una lunga strada dritta. Il bazar di Bamyan è sepolto sotto vecchie bombe, sulla strada dritta c’è ben poco da vendere e ben poco da comprare.

Pregano inginocchiandosi verso occidente dove c’è la Mecca i fedeli della valle. E intanto cominciano a gelare i campi. La “città rossa” che è una fortezza medievale costruita su un picco a qualche chilometro è avvolta dalla nebbia. È già sparita anche la “città dei mormorii”, altre case aggrappate a una roccia che chiamano così perché il vento che le sfiora poi trasporta strani suoni tra i monti. Il vecchio elicottero russo si alza singhiozzando e passa ancora una volta sulle terre dove gli hazara muoiono e dove i Buddha sembrano vivi, ancora lì, ancora in piedi a scrutare la loro valle.

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